La pausa pranzo è retribuita? Uno sguardo alla normativa.

Tra leggi del lavoro complicate e politiche aziendali (spesso) sfuggenti, capire se la pausa pranzo sia effettivamente retribuita come le restanti ore della giornata può sembrare un enigma da risolvere. In questo articolo cercheremo di dare una risposta chiara a questa domanda, esaminando tutto ciò che c’è da sapere in modo semplice.

Facciamo un passo indietro: la pausa pranzo è obbligatoria?

Lecito chiederselo, soprattutto perché le giornate lavorative non sono uguali per tutti e tutte: dipende dalla professione svolta, dal contratto in essere, dal settore di impiego, da eventuali imprevisti e così via.

Iniziamo a chiarire quindi che, secondo l’articolo 8 del D. Lgs. 66/2003, la pausa pranzo è obbligatoria quando la giornata lavorativa supera le 6 ore:

“Qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore il lavoratore o la lavoratrice deve beneficiare di un intervallo per pausa, le cui modalità e la cui durata sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro, ai fini del recupero delle energie psicofisiche e dell’eventuale consumazione del pasto anche al fine di attenuare il lavoro monotono e ripetitivo.”

In poche parole, oltre a soddisfare i requisiti normativi, è importante che la pausa pranzo sia vista come un’opportunità per i dipendenti di recuperare le forze in vista delle ultime ore della giornata. Sta poi ai vari CCNL di settore regolarne tempo e modalità.

Si può saltare la pausa pranzo per uscire prima?

In alcuni contesti lavorativi può anche essere consentito saltare o ridurre la pausa pranzo per uscire anticipatamente, purché ciò sia concordato con il datore di lavoro e il totale delle ore lavorative previste sia rispettato

Le motivazioni dietro questa scelta possono variare: alcune persone potrebbero aver bisogno di uscire prima dal lavoro per impegni familiari o personali, altre potrebbero farlo per evitare gli orari di punta nei trasporti pubblici o semplicemente per svolgere una commissione che non hanno modo di portare a termine dopo l’orario lavorativo. Ma è bene ricordare che in tutte queste casistiche una modifica dell’orario di lavoro non sarebbe da considerare una tantum, poiché altrimenti sarebbe sufficiente chiedere un permesso.

Qualora l’azienda permettesse di saltare o ridurre la pausa pranzo per uscire prima, è essenziale assicurarsi che questa opzione sia comunicata chiaramente e che sia gestita in modo equo per tutti i dipendenti (nel senso che, ovviamente, non possono esserci discriminazioni di alcun tipo).

Potrebbe essere necessario stabilire delle procedure interne per disciplinare questa flessibilità, e allo stesso tempo garantire che non vi siano malintesi. Ovviamente, a fronte di meeting importanti, appuntamenti che non si possono più spostare o altre necessità.

Ma quindi, la pausa pranzo è retribuita?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo dapprima comprendere quanto stabilito dall’articolo 5 del Regio Decreto n.1955 del settembre 1923 e dall’articolo 4 del Regio Decreto n. 1956, nei quali è specificato che non sono considerati come lavoro effettivo:

  • I riposi intermedi (interni che all’esterno dell’azienda;
  • Il tempo impiegato per raggiungere il posto di lavoro;
  • Le pause di durata non inferiore a 10 minuti e complessivamente non superiori a 2 ore, comprese tra l’inizio e la fine di ogni periodo della giornata lavorativa, durante le quali non è richiesta alcuna prestazione al dipendente.

Pertanto, in base alla legge italiana, la pausa pranzo non è considerata come lavoro effettivo e non è retribuita, a meno che non sia previsto diversamente dal CCNL.

Inoltre, la legge non stabilisce il momento preciso in cui deve essere concessa la pausa pranzo durante la giornata lavorativa: la determinazione del momento della pausa è lasciata alla discrezione del datore di lavoro, che può decidere in base alle esigenze tecniche dell’attività lavorativa


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